Claudia Formiconi
Articolo Bergman: il maestro dell'esistenzialismo nel linguaggio cinematografico

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3 Luglio 2017
Bergman: il maestro dell'esistenzialismo nel linguaggio cinematografico



Ingmar Bergman è il regista che più di ogni altro ha saputo coniugare i temi dell’esistenzialismo, nella sua accezione più complessa, con i mezzi tecnologici del linguaggio cinematografico.

Tutta la tematica che ha accompagnato pedissequamente la sua esistenza è ripercorribile leggendo tra le righe del film capolavoro, del 1956, Il Settimo Sigillo (originariamente un atto unico, un saggio teatrale, del 1954), laddove la problematica esistenziale, la paura dell’ignoto e delle incertezze del dopo, divengono crucci laceranti per un uomo da sempre combattuto tra la fede religiosa e la figura di Dio vista, soprattutto, come una fredda regola (suo padre era un pastore luterano dalla rigorosa condotta irreprensibile). Lo stesso Bergman dirà: “La famiglia di un prete vive come su un vassoio, senza alcuna protezione dagli sguardi di estranei …
Foggiai una personalità esteriore che aveva ben poco a che fare con il mio vero io. Non riuscendo a tenere separate la mia maschera e la mia persona, ne risentii il danno sin nella vita e nella creatività della vita adulta. A volte dovevo consolarmi dicendo che chi è vissuto nella menzogna ama la verità”.

Il nobile cavaliere Antonius Block (un magistrale Max von Sydow), prima di dichiararsi battuto nella partita a scacchi con la Morte, dice al Monaco (la Morte), che seguirà il destino, ineluttabile, soltanto quando avrà seguito il percorso dell’espiazione, al fine di recuperare la spiritualità perduta, avendo egli combattuto una guerra santa. Solo allora l’umano Antonius porrà fine al gioco e a facilitare la vittoria della morte sulla vita. Non è difficile, qui, relazionare la simbolica figura del Cavaliere con la complessa personalità di Bergman.
Il grande regista svedese di Uppsala, non a caso, è stato definito, paradossalmente, un ateo-cristiano, proprio per la sue continue ‘fughe’ mentali inerenti la religione cristiana e, altresì, la voglia incoercibile di una difficile ricerca interiore di una spiritualità divenuta, negli anni, sempre più impellente, di un porto sicuro, un rifugio, un topòs, di quel luogo, come vedremo più avanti, sempre costante nelle sua filmografia (vedi Il posto delle fragole del 1957), dei ricordi della memoria che conforta e dà serenità nei momenti di grande angoscia.

Anche sua madre affetta da fragilità psichica “aveva un eccessivo carico di lavoro era tesissima, non riusciva a dormire, faceva uso di forti sedativi che avevano effetti collaterali quali l’irrequietezza e l’ansia” (Ingmar Bergman, “Lanterna magica” cit. pag. 125), diviene, in un certo qual modo, una figura latitante, non presente per come avrebbe dovuto essere nei confronti di un bambino in età evolutiva, e per di più sensibile come lo era il piccolo Ingmar.

“La situazione familiare oppressiva avrebbe lasciato nel giovane un segno profondo: sono da cercare qui le radici dei suoi dubbi esistenziali, del suo anticlericalismo, della sua disperata ricerca d’amore, di un Dio che non è rito o burocrazia, ma, appunto, amore” (Sergio Trasatti “Ingmar Bergman”, Il Castoro, Cinema 1993).

Già di un Dio che non sia un mero rito, avvolto nel gelido della sua accezione più estrema, ma di un padre che propali amore, calore e conforto.
Dio-Amore, quale binomio necessario per il regista svedese, la fusione del sentimento universale e dell’onnipotente, come esigenza interiore, laddove l’esistenza di Dio non può prescindere l’amore, dato che Dio stesso è amore, misericordia. Ma come già enunciato, sarà un lungo e difficile cammino, costellato da dubbi e continui ripensamenti, dovuti, oltre al suo fermo anticlericalismo, alle convenzioni che la religione stessa impone, insomma una costante ricerca spirituale durata tutto l’iter della sua esistenza.

Ed è proprio in questo algido ambiente che Ingmar ragazzo, sente la necessità di crearsi un mondo tutto suo, un mondo fantastico, abitato da maschere e teatrini, i teatrini della sua complessa infanzia, descritti magistralmente nelle suggestive sequenze poetiche di Fanny e Alexandre del 1982 (opera autobiografica colossale della durata di cinque ore per la televisione svedese e tre per la versione cinematografica), permeate dalla dolcezza delle immagini fantastiche e animata dai burattini della visione infantile di Alexandre-Ingmar: “In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sonnarthuset ad ascoltare l’enorme betulla tra i due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà” (Ingmar Bergman, La lanterna magica, 1984).
Papà Oscar, direttore di un teatro locale in Fanny e Alexandre, diviene l’anelata figura paterna di Ingmar-Alexandre e che è l’antitesi del severo patrigno, il pastore Vergerus, che ricorda tanto Erik Bergman, padre del regista.

Il teatrino dei ricordi infantili, ci dà la dimensione del suo smisurato amore nei confronti del teatro. Molti, infatti, sono stati i suoi allestimenti, rivisitazioni e pregiate regie di opere teatrali, tra cui Danza di morte di August Strindberg, Il gabbiano di Checov, Le baccanti di Euripide, Caligola di Camus, Il Castello di Kafka e del nostro Luigi Pirandello, colui che ha come temi ricorrenti la maschera, il rapporto arte e vita, tanto cari, anche, al regista svedese. Egli metterà in scena nel 1953 I sei personaggi in cerca d’autore.
È da sottolineare il taglio scenico teatrale di tutti suoi film, dove l’essenziale e l’uso frequente delle didascalie conferiscono, da sempre, la peculiarità di Bergman quale rigoroso regista nordico.
La maschera, nella simbologia bergmaniana, così come anche lo specchio nel caso della duplicità dell’essere, assurge a scudo protettivo, una sorta di anticorpi per fronteggiare le crisi e le difficoltà nel relazionarsi con gli altri:

“I nostri rapporti col prossimo si limitano per la maggior parte col pettegolezzo e una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine” ( da Il posto delle fragole).
Il professore Isak Borg, protagonista de Il posto delle fragole (1957), interpretato magistralmente dal già noto regista, allora settantottenne Victor Sjostrom, nonché maestro di Bergman, ne è l’esempio eloquente. Un burbero e misantropo batteriologo, divenuto conscio del suo vivere distaccato da tutto e da tutti, cercherà di essere più umano e comprensivo riconciliandosi, a partire dalla sua famiglia, col mondo intero. Con quel mondo che, chissà, per mero egoismo o semplice disattenzione, alle volte si perde di vista, trascurando in tal senso anche quella parte buona e rispettosa del genere umano.

L’immagine riflessa nello specchio che Sara (Bibi Andersson), la sua cara cugina d’infanzia, cui tra l’altro egli fu innamorato in gioventù (Sara sposerà in seguito, malgrado lui, un altro cugino), gli impone di osservare attentamente per guardare in faccia la realtà, senza maschera, quella tenuta volontariamente per occultare e non mettere a ‘nudo’ la sua identità, e ora senza più protezione, assume agli occhi di quel vecchio scienziato, una dimensione più accettabile e più consona al suo spirito, divenuto in età senile, più romantico. E tra le visioni oniriche degli scenari surreali, quali una città assolata e deserta scandita dal ticchettio di un inquietante orologio senza lancette e la visione di un morto in una bara con il volto identico al suo che lo afferra per un braccio, a mo’ di monito, e degli accadimenti avvenuti durante il lungo viaggio, in compagnia di sua nuora Marianne (una giovane e brava Ingrid Thulin) in crisi con il marito, che lo accompagnerà a Lund per i festeggiamenti del suo Giubileo professionale, e l’incontro-confronto generazionale con una comitiva di tre esuberanti giovani autostoppisti diretti in Italia, e l’impatto con una coppia matura in piena crisi matrimoniale (che risveglierà al professore l’amara situazione analoga del passato), Isak Borg cerca di perseguire una strada riconciliatrice e purificatrice per la sua anima.

La catarsi mentale avverrà solo dopo aver ripercorso il tragitto a ritroso dei momenti spensierati della sua fanciullezza, così come il posto delle fragole rappresenta la primavera e cioè la stagione della giovinezza, tutti gli anni allo scoccare della primavera, tornano di nuovo le fragole e così i ricordi. Questo è il simbolico topòs delle rimembranze, che induce a riflessioni dolci ma altrettanto “melanconiche” da cui è bello farsi trasportare. Così, puntualmente, torna alla memoria Sara, la sua guida nel mondo dei ricordi:
“Quando, durante la giornata sono stato preoccupato o triste, per calmarmi, di solito, cerco di ripensare ai periodi felici e così feci anche quella sera”. Il posto delle fragole ha una funzione salvifica e rasserenante per il nostro professore, tanto quanto per il nostro regista, anzi, sicuramente il professor Borg altro non è che l’immagine speculare di Bergman in età matura.

È del 1963 la Trilogia del silenzio, a carattere propriamente religioso, composta da: Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio. Volendo usare un ossimoro, il silenzio, diviene voce narrante essenziale delle vicende.

In Come in uno specchio, titolo ripreso dal capitolo 129 (verso 13) della Lettera ai Corinzi di san Paolo:“Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia”, è evidente la ricerca interiore dell’essere nei confronti della vita, nello spazio e nel tempo, di una dimensione che dia gioia, serenità che solo l’amore e la fede possono dare. L’amore, dunque, ma soprattutto la fede in Dio, che si palesa proprio attraverso i rapporti d’amore tra gli uomini. Anche qui Bergman, l’uomo e l’artista, avverte l’urgenza di trasmettere, attraverso la sua opera, quell’ansia di ricerca dell’infinito, della trascendenza, nell’illusione di ravvisare Dio, proprio “come in uno specchio”, avvolto ancora nella confusione, nel caos della vita immanente e che, in seguito, assumerà toni più nitidi, solo “allora vedremo faccia a faccia”. Ed è così che Karin, nella desolazione del baratro della sua malattia, ha finalmente ravvisato la luce di Dio, poiché ora è circondata dall’affetto dei suoi cari. Gli spazi molto esigui e ben delimitati, delle vicende, denotano le angosce e le ansie dell’uomo prigioniero di se stesso.

Lo sgomento dello scettico e distaccato pastore Tomas in Luci d’inverno, nei confronti del silenzio di Dio dinanzi alla morte di Jonas, che con le parole di Cristo morente, fatto uomo, dice: “Dio perché mi hai abbandonato?” scoraggiato da un “… Dio troppo lontano da noi”, e poi, chissà, la fede che riaccende la speranza. Il dubbio, la paura, la solitudine quale percorso di un travaglio interiore, superabile solamente con la speranza della fede in Dio ed anche in quella degli altri. La paziente Marta, capace di amare, e che a sua volta ama profondamente l’insensibile (solo in apparenza) Tomas, diviene quasi il tramite con il Dio tanto ricercato dal pastore. Simbolica è la scena finale quando egli officiando il rito, all’interno di una desolante chiesa vuota, stacca lo sguardo dal volto della donna per poi rivolgerlo verso l’alto, come se l’amore di Marta fosse la rivelazione salvifica dell’amore di Dio.

Il contrasto tra il corpo e l’anima quando viene meno la mancanza della fede in Dio in Il silenzio, dove due sorelle, avvinte in un rapporto fortemente antitetico ma unite, altresì, quasi, morbosamente, da un sentimento autodistruttivo, si lasciano andare a vizi e dissolutezze di ogni genere. Ester (Ingrid Thulin) colei che è gravemente ammalata (morirà di lì a poco abbandonata dalla sorella Anna) porta con sé gli strascichi dell’alcoolismo, mentre Anna (Gunnel Lindblom) sfodera tutta la sua sensualità e sessualità come probabile rimedio ai suoi fallimenti. Laddove manca Dio vi è la presenza del male. Tutto si consuma sotto gli occhi confusi dell’adolescente Johan, depositario del messaggio che la zia Ester gli consegnerà a mano, affinché lo dia a sua madre Anna, il quale svelerà il mistero della parola, dapprima incomprensibile, “Hadjek” cioè Anima, dall’accezione universale.

Di nuovo l’anima, a rimarcare il forte sentimento della spiritualità dell’uomo e dell’artista.
“Fino ad oggi i film sono stati fatti da uomini per gli uomini, Ingmar Bergman è forse il primo ad aver affrontato certi segreti del cuore femminile” (Francois Truffaut).

Una particolare attenzione al mondo delle donne da parte di Bergman è testimoniato da molti film, primo fra tutti Sussurri e grida del 1971.
La vicenda è molto drammatica, dai connotati ancor più teatrali. In un interno ‘freddo’ di una casa austera e impersonale, tra lo scoccare incessante delle ore scandite da un orologio a pendolo, con uno sfondo al di là della finestra (una sola ripresa esterna), dalle gelide atmosfere nordiche ammantate di neve, si consuma la tragedia, di quattro donne, nella loro complessità: Agnese (Harriet Andersson), gravemente ammalata e in fin di vita, le rispettive sorelle Karin (Ingrid Thulin) e Maria (Liv Ullmann), ed Anna (Kari Sylwan) la fedele governante, che da anni si prende cura di Agnese.
In un alternante gioco di flash back e voce narrante si accendono e si dissolvono i colori dell’emotività della vita: il rosso che simboleggia il dolore, il nero il lutto ed infine il bianco la purezza, che tutto acquieta nel nitore della grazia. Il film è fortemente incentrato sul tema della morte.
La straziante dipartita di Agnese, consumata tra le grida della sofferenza, e i sussurri incomprensibili fuoricampo e del vento gelido, così come l’atmosfera gelida dell’indifferenza e la formalità di Karin e la superficialità di Maria, l’affetto smodato e incondizionato e la disperazione di Anna, che ha perso un figlio in tenera età, testimonia, ciononostante, un messaggio di speranza, così come si evince dal diario della povera Agnese, che avendo “vissuto” anche solo “per un attimo la felicità”, dice – “Sento di dover essere grata alla vita che mi dà tanto” –, e nell’epilogo una didascalia con la frase del profeta Geremia:
“Quando le grida e i sussurri saranno passati”.

Sinfonia d’autunno del 1978 segna il ritorno, dopo circa quarant’anni di assenza dal mondo cinematografico scandinavo, della grande Ingrid Bergman, che per la prima volta si cimenta in un film diretto da Ingmar Bergman.
La tematica è lo scontro generazionale, tra una madre e una figlia, di due personalità completamente antitetiche.
Charlotte (una matura e strepitosa Ingrid Bergman), pianista di chiara fama è una figura predominante, di una madre sempre presa dai suoi impegni concertistici e distante dal quel ruolo propriamente materno, in quanto tutta concentrata su se stessa e alla soddisfazione dei personali capricci, propri, di una primadonna. Di contro abbiamo l’insicurezza della figlia Eva (Liv Ullmann), moglie di un pastore protestante, molto credente ma segnata profondamente dalla perdita del figlio di quattro anni, e lo strazio continuo di dover assistere la sorella handicappata Helena, che sua madre aveva relegato, a suo tempo, in una clinica. L’incontro con la madre fa scattare in Eva uno sfogo d’ira ed un j’accuse nei confronti di lei, venuta meno alle sue responsabilità di madre, tanto da aver provocato persino l’aggravamento di Helena e di aver tradito il marito. Il tutto intervallato da flash back che rimandano ai tempi felici di quando Eva era piccola, nell’età dell’incoscienza.

Charlotte, allora, presa dai rimorsi, chiede scusa ad Eva, che però non sente ragione e continua a rinfacciarle ogni cosa. Anche ingiustamente. Solo quando sua madre è partita, Eva, assalita dal pentimento, prende carta e penna e le scrive una lettera, e, laddove, prima, vi erano livore ed odio, emergono ora sentimenti quali la compassione, il perdono, l’amore.
“Ho preteso troppo da te senza darti niente in cambio, ti ho tormentata con un vecchio odio che non ha più ragione di esistere. Chissà se la mia lettera ti arriverà, mamma […]. E non so se la leggerai […]. Ma voglio sperare che serva al nostro amore perché è doloroso riconoscere i propri errori. A di là di ogni cosa esiste la pietà, la compassione. Forse è ancora possibile curare le nostre ferite […]. Ho ancora fiducia. Non mi arrenderò anche se è troppo tardi. Non credo che sia troppo tardi, non può essere troppo tardi”. L’epilogo disvela un certo ottimismo, che eclissa l’ignoto e fa accendere un ‘faro’ alla speranza.
La figura femminile bergmaniana, dai tratti, a volte, fragili, assurge, invece, a creatura coraggiosa, dalla forte visione realista.
La scelta delle musiche è un’esigenza intima del regista che, data la profondità dei temi e lo spessore dei personaggi, fa ricorso ad arie classiche, che ben si attagliano alle vicende così personali, tanto che la spiritualità, la tragicità, i preludi ed un velato romanticismo trovano come punto di riferimento Bach, Mozart, Chopin, Wagner e Schumann.

Cinque anni fa, il 30 luglio del 2007, Bergman ha concluso la sua partita con la vita, come Antonius Block nella partita a scacchi con la morte.
Chissà se il mondo che ha trovato, superando l’immanente, sarà stato a misura delle sue esigenze spirituali, se quella tranquillità di spirito, tanto anelata, lo ha rimandato, ad echi più trascendentali, quel trascendente che Bergman stesso ha sovente ricusato nella sua mente.
Questo non è dato saperlo. Piace, però, ricordarlo nel suo mondo irreale, quello dei suoi teatrini e dei suoi burattini, così come nonna Helena, attrice in gioventù, alla fine del film, legge al piccolo Alexandre, che ha appoggiato la testa sul suo grembo rassicurante, queste parole:

“Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile, il tempo e lo spazio non esistono, l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni”.

Articolo pubblicato su www.culturadesso.it e http://libreriauniversaliamediateca.blogspot.it/

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